Farsi notare dai giornalisti: no agli stereotipi
Ti ho spiegato come farti notare dalla stampa per finire su magazine e giornali e vorrei aggiungere con questo articolo ulteriori consigli, perché so che con molta probabilità tu che stai leggendo non sei un uomo bianco etero e c’è il rischio che ti possa capitare una cosa come quella che sto per raccontarti.
Tempo fa ho letto un post di Emily Quinton, fondatrice di Makelight [ndr attività oramai defunta], che mi ha fatto molto pensare. Quinton racconta di come, dopo aver rilasciato un’intervista, si ritrovò descritta nell’articolo come la “moglie di un imprenditore”, spostando quindi tutto il peso e i meriti della sua attività sulle spalle del marito. Peccato che l’idea di Makelight fosse di Quinton e, sì, l’azienda la gestivano insieme ma la capa era lei. Lei è un’imprenditrice e non “una mamma imprenditrice” o “una ragazza boss”. Cosa ha contro quest’ultimo termine? #Bossgirl è un appellativo molto usato tra le donne imprenditrici (o aspiranti tali) ed è diventato famoso dopo il libro e la serie tv ispirati alla vita di Sophia Amoruso, che ha creato un’azienda a partire da un negozio su eBay.
Secondo Emily utilizzare bossgirl o mumpreneur per descriversi toglie credibilità al proprio lavoro e fomenta gli stereotipi di genere, perché, in effetti, esistono già termini per descrivere una donna che mette in piedi un’attività da zero e questi termini sono imprenditrice, artigiana, fondatrice, amministratrice delegata, eccetera.
A mio avviso, il problema di #bossgirl, è la seconda parte della parola, ovvero girl, che in italiano può venire tradotto con ragazza o ragazzina.
Perché una donna dovrebbe voler definirsi così? Dopotutto l’espressione “gioco da ragazzi” vuol dire “è una cosa molto facile da fare” e sai benissimo che lavorare da sol3 e far crescere un’attività da zero non lo è affatto.
Quindi, #girlboss poteva andare bene per Amoruso che, poco più che ventenne, iniziava un’avventura in maniera quasi casuale, ma non è accettabile a mio avviso per chi lavora in qualsiasi campo da anni, studia, si fa il mazzo e, diciamocelo, ha magari superato i trenta da un bel po’.
Tornando alla stampa: come ti dicevo, i giornalisti sono a caccia di storie interessanti e le raccontano inevitabilmente col filtro della cultura in cui vivono (nel nostro caso, maschilista e patriarcale, xenofoba, razzista, abilista, omofoba, transfobica e più ne ha più ne metta) e di ciò che sanno o non sanno.
Può quindi capitare che sappiano molto poco sull’artigianato, su come gestire una seppur piccola attività imprenditoriale e sulle sfide che per noi sono pane quotidiano. Questo può comportare, da parte loro, un minimizzare e ridurre tutto a termini molto semplici o addirittura semplicistici, per rendere la lettura dell’articolo facile per tutti, senza contare i limiti di spazio, tema, target imposti dalla rivista, sito, redazione, che sicuramente non rendono il compito più facile.
Questo modo di raccontare può portare, però, alla distorsione di una realtà che noi percepiamo e viviamo in maniera completamente diversa, dato che ci sguazziamo in prima persona da anni.
Mi è capitato tante, troppe volte, anche in tempi recenti, di leggere articoli che parlavano di lavoretti, di quanto sia facile e bello vendere le proprie creazioni da casa, di come la vendita online sia una robetta da fare tra un cambio pannolino e una spolverata, aspettando il marito che torna a casa dalla sua giornata di lavoro. Di vedere le imprenditrici donne chiamate per nome, senza cognome o titolo, descritte come mamme o mogli prima che con la qualifica professionale faticosamente conquistata. Il voler indugiare troppo o, addirittura soltanto, sull’aspetto relazionale della vita dell3 intervistat3 accade sempre con le donne, ancora peggio poi se si tratta di persone appartenenti alla comunità LGBTQ+, e/o con disabilità, e/o razzializzate, perché in questi casi si aggiungono ulteriori stereotipi e toni spesso di pietismo che permeano il razzismo, l’abilismo, l’omofobia, la transfobia.
Sono giunta da tempo alla conclusione che la percezione del mondo della piccola imprenditoria creativa (soprattutto femminile) da parte del 99% de3 giornalist3, è deformata dagli stereotipi di genere: chi fa questo lavoro è la donna che sta a casa a fare collanine o la maglia, o cucire vestitini e borsette ed è vista come una casalinga disperata che, per noia e per riempire le ore vuote della giornata, si dà a questi piacevoli passatempi.
Non importa se a scrivere l’articolo sia un uomo o una donna! E non importa quanto sia bravo il o la giornalista. Raramente ho letto articoli che andavano a fondo e coglievano il nocciolo della questione* (forse sfiorata una o due volte), mentre, quando si parla di artigianato, lo si fa molto spesso citando solo aziende o attività gestite da uomini o comunque persone che hanno ereditato l’attività di famiglia.
[Digressione: *Il nocciolo della questione, a mio avviso, è che per le donne il tasso di occupazione è bassissimo (l’Italia è nei fanalini di coda nell’Unione Europea), vengono licenziate troppo facilmente quando rimangono incinte o non possono lavorare per mancanza di qualcuno che si occupi della prole, prole che la politica vuole incentivare a sfornare ma, guarda caso, deve essere accudita solo dalla madre, sia mai che un padre rinunci alla propria carriera o che sia fornito un aiuto reale alle famiglie. La conseguenza di questa situazione, che peggiora dopo ogni crisi economica**, è che le donne devono per forza ricorrere a dei lavori che possano svolgere da casa, con poco investimento, magari sfruttando le competenze acquisite in anni di studio e lavoro, competenze che purtroppo difficilmente il mondo del lavoro valorizzerà. Alcune si imbarcano quindi in attività creative che poi provano a trasformare in professioni. Qualcuno ha mai raccontato in quest’ottica la “rinascita dell’artigianato e del DIY” avvenuta intorno agli anni 2010 guardacaso dopo la crisi economcia mondiale? Non mi pare. (**Vai a guardare i dati di chi è stato lasciato a casa durante la pandemia 2020-2021. Spoiler: le donne.)]
È quindi davvero importante che, quando comunichi con la stampa e in generale col mondo intero, tu sia intenzionale in ciò che vuoi dire, nei messaggi che comunichi e nelle parole che scegli, evitando qualsiasi tipo di stereotipo che aiuti le costruzioni semplicistiche che sappiamo venire usate dalla stampa.
Esempio classico: quando scrivi la tua bio, che sia sul tuo negozio o su Instagram, o quando rispondi a delle domande di giornalisti, non è necessario mettere in primo piano che sei una mamma e moglie o una single con gatti, a meno che tutto ciò non sia funzionale al racconto del tuo brand. E ti assicuro che 9 volte su 10 non è rilevante. Non sto dicendo che devi cancellare questo fatto totalmente dalla tua comunicazione, solo che secondo me non va impostato come il fulcro del racconto del tuo lavoro.
È giunto il momento di fare attenzione ai termini che usiamo per descriverci e raccontarci, perché lamentarci di non essere prese sul serio senza però muovere un dito perché evitare ciò, non è più un’opzione.
E quindi come si fa a dire queste cose ai giornalisti e a fare in modo che anche loro non usino gli stereotipi? Il nostro controllo è sulla nostra parte di comunicazione e chiaramente non possiamo impedire che la stampa ci tratti come delle macchiette però possiamo sicuramente mettere dei paletti e, se non vengono rispettati, lamentarci. A questo scopo ti invito a leggere questa guida che spero potrà esserti d’aiuto. So che non è facile porsi verso la stampa da una posizione di svantaggio e bisogno (es. siamo un piccolo brand sconosciuto e abbiamo bisogno della pubblicità) però se lo facciamo tutt3 insieme forse qualcosa inizierà a cambiare.
Questo post è tratto dalla mia newsletter inviata il 25 maggio 2017. Aggiornato il 19 ottobre 2022. E non è cambiato un ca**o.
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9 Gennaio 2018 @ 23:14
a qualsiasi età ed ovunque noi donne siamo vittime degli stereotipi, se poi iniziamo ad usare certi neologismi e definizioni (peraltro orrendi foneticamente parlando) non facciamo che peggiorare la situazione
certo che l’handmade è un territorio spinoso, perché tante non hanno una qualifica vera e propria e questo le rende più esposte all’ambiguità, una persona che si presenta con un titolo fa già un’altra impressione
16 Gennaio 2018 @ 12:30
ciao Minou, temo che le qualifiche centrino poco con l’autostima e la cornice culturale in cui viviamo, purtroppo sono meccanismi che abitano ognuna di noi e bisogna lavorare tutte sodo per cercare di modificarli. Ce la faremo! 🙂
16 Gennaio 2018 @ 12:22
Ciao Francesca e grazie per i preziosissimi consigli. Parli molto nei tuoi articoli dei termini da usare o non usare, dello storytelling, raccontare il nostro ‘essere umane’, ecc. Parli molto della qualità ma non riesco mai a capire la quantità. Nel senso: quand’è che un racconto diventa troppo lungo e scoraggia la lettura? Possiamo impegnarci molto in quello che scriviamo, ma è fisicamente impossibile concentrare una storia o tante informazioni in una bio di poche righe. E so che sul web non legge nessuno nel momento in cui le righe diventano troppe. Nemmeno iniziano a leggere! Come si fa a trovare un equilibrio fra l’informazione completa e l’informazione concisa? Quale pensi che sia un numero congruo di caratteri per una bio? Informazioni forse banali ma ti assicuro molto concrete come questa ci sarebbero anche di grande aiuto. Grazie!
16 Gennaio 2018 @ 12:28
Ciao Ilaria, non è vero che sul web non legge nessuno! purtroppo non c’è una ricetta valida per tutti, solo l’esperienza e gli esperimenti potranno darti queste informazioni riguardanti i tuoi lettori. Se hai bisogno di più informazioni, trovi tutto nel mio corso online “Racconta il tuo brand handmade” https://francesca-baldassarri.thinkific.com/courses/racconta-il-tuo-brand-handmade
grazie per aver letto il mio articolo 🙂
16 Gennaio 2018 @ 19:31
E’ che a me scrivere piace, spiegare bene piace. Ho il problema contrario a quello che incontrano molte, ho paura del foglio troppo pieno e non di quello bianco! E molti webmaster mi sgridano: scrivi troppo! Nessuno si fermerà a leggere! Allora io scrivo, poi taglio, ritaglio e ritaglio ancora. E rimane sempre lungo!
Ho letto i tuoi libri, per i corsi ci sto ancora pensando 😉 Grazie della risposta!
18 Gennaio 2018 @ 13:43
è vero però ti assicuro che se parliamo di professioni tradizionali con titoli chiari e riconoscibili da chiunque (avvocato, medico ecc) c’è un minimo di rispetto in più
le donne che fanno handmade purtroppo quando sono giovanissime vengono considerate ragazzine che passano il tempo mentre studiano in attesa di fare una professione “seria”, se invece sono di mezza età o non più giovanissime, allora scatta lo stereotipo della “signora” annoiata che nel tempo libero fa lavoretti, è davvero difficile farsi prendere sul serio
18 Gennaio 2018 @ 15:41
temo non sia così facile né scontato, ho amiche con titoli che comunque sul luogo di lavoro vengono prese meno sul serio dei loro colleghi, io non ho nessun titolo particolare se non l’esperienza e pure penso di potermi ritenere un’esperta in quello che faccio e di essere riconosciuta come tale. Dipende tutto da come ci si pone!
18 Gennaio 2018 @ 13:45
mi permetto di risponderti Ilaria, non è vero che sul web non legge nessuno, dipende dal tuo target
a me per esempio se una creativo interessa, più c’è da leggere e più sono contenta, se una persona\brand mi appassionano voglio trovare quante più informazioni possibili, quindi una bella pagina about nutrita è solo un vantaggio
4 Febbraio 2018 @ 14:32
non fatico per niente a crederlo, però converrai con me che se una donna di 35\40 anni o più si presenta come “amante dei gatti e del cioccolato, amo stare a casa con una tisana calda la sera e divoro i libri di Jane Austen” (tanto per parafrasare una delle tante bio che si leggono) o cose del tipo ” ero a casa annoiata dalla mia vita di mamma e ho deciso di mettermi a creare”, che cosa potrà pensare una persona dall’altra parte, uomo o donna che sia?
io più di tanto non dò peso a queste cose, ma sono sicura che altri inquadreranno subito la persona in questione in un certo modo..purtroppo
18 Gennaio 2018 @ 15:09
Buongiorno Francesca, trovo il tuo articolo molto interessante e in effetti condivido le tue considerazioni sebbene io sia partita da una posizione completamente diversa: in alcuni post ig e fb, e anche nel mio giovanissimo blog ho a volte evidenziato il mio essere mamma e moglie, il mio avere un altro lavoro “istituzionale”, ecc., pur nel tentativo di mostrare la mia professionalità, pensando in realtà che fosse un valore aggiunto. Avevo perfino creato un # anche se non ha avuto successo. Il fatto è che corro dalla mattina alla sera, non voglio infilarmi in uno stereotipo ma noi donne, in generale, corriamo e lavoriamo molto più degli uomini. Io svolgo tre lavori che si dividono il mio tempo lavorativo, sono capo scout (taaante ore di volontariato) e mi occupo al 100% della famiglia. Trovo tutto questo impegnativo, appassionante e bello, ammiro molto le donne che lo fanno e che sanno tenere tutto in piedi, in equilibrio, riuscendo a infondere e trasmettere anche un’autentica “filosofia” di vita. Mi piace anche molto la condivisione e la complicità che si possono creare. Tutto questo intendo per valore aggiunto … non so cosa ne pensi … grazie per i tuoi contenuti sempre interessantissimi
18 Gennaio 2018 @ 15:43
ciao Tiziana, non ho mai detto che le mamme lavoratrici non siano delle wonderwoman, ne conosco diverse e hanno tutta la mia ammirazione. Il comunicare o meno NEI CANALI DEL TUO BRAND queste cose che tu hai detto dipende molto dal brand che hai e dal tuo target. Io ho notato che molte volte questo aspetto di mamma madre ecc. è messa in primo piano, quando non dovrebbe esserlo perché non rilevante per il brand, e di sicuro non aiuta a far percepire come professionale un’attività, perché, se viene dopo “moglie e madre” e chissà che altro, sembra un hobby.
Quindi, se è un hobby ok, se è un lavoro e lo devi comunicare nei tuoi canali di lavoro, bisogna stare, secondo me, un pelo più attente.
4 Febbraio 2018 @ 14:34
esistono anche uomini che stanno fuori da mattina a sera e si fanno in 4, siamo nel 2018 e penso che noi donne per prime, conferendoci questa aura di wonderwoman, siamo le prime ad autodiscriminarci, parere mio naturalmente, condivisibile o meno
24 Gennaio 2018 @ 13:43
Grazie mille per la risposta. Il tuo blog è una fonte inesauribile di riflessione. A presto