I benefici di far parte di una rete o community
La comunità dei crafter è aumentata a dismisura, si è frazionata sui social, in gruppi e pagine, spesso intorno agli influencer. E’ forse venuta meno la voglia di cercare da sé le informazioni, perché nel frattempo sono diventate sovrabbondanti; è forse venuto meno lo stimolo a collaborare verso obiettivi comuni, ognuno preso dal proprio desiderio di riuscire.
Cosa vuol dire fare parte di una community
Creare un senso di appartenenza e unione è un altro requisito delle community che funzionano: questo senso di appartenenza genera unione tra i membri del gruppo e li spinge a collaborare in armonia. (Qui potrei aprire una parentesi su come, a volte, questo senso di appartenenza viene sollecitato da chi gestisce le comunità, utilizzando dei “nemici esterni”, ma non ho le competenze per sproloquiare sulla teoria dell’identità sociale e di ingroup e outgroup. E sì, capita anche alle comunità di creativi, l’ho visto accadere: il “nemico” può essere un’altra comunità di creativi o una piattaforma, di fatto il senso di appartenenza riceve un boost perché si fa leva sul ‘noi’ contro ‘loro’. Ti suona familiare? Eccerto, lo vediamo accadere anche in politica, da sempre.)
Io penso alle cose fatte con l’Etsy Italia team, come ti raccontavo nell’articolo sul viaggio in Calabria.
Le difficoltà delle community
Gestire e far prosperare una community non è facile. Si tratta pur sempre di tante presone, ognuna con le proprie idee e obiettivi, ognuna con la sua sensibilità e il suo modo di fare le cose. Se è utile stabilire subito che chi decide fa e che i “io farei così” valgono solo se poi si trasformano in fatti, ci sono altri ostacoli più o meno difficili da superare:
Arrivano in massa nuovi partecipanti
Il secondo si presenta se i nuovi prendono il sopravvento coi propri modi di fare e valori, così che i vecchi fuggono, spaventati. Una cosa così accadde con Deviantart: a un certo punto divenne super famosa e ci fu un ingresso massiccio giovanissimi, che invasero il portale (e social ante litteram) con arte che non era proprio arte (fan art disegnata da bambini e ragazzini, ehm) che, insieme allo sparire delle interazioni che erano la base fondante della comunità (si stava su Deviantart per il confronto: si criticava e si ricevevano critiche, si cresceva insieme) portò tanti della “vecchia guardia” ad abbandonare il sito. Deviantart esiste ancora ma, più che una community, è un sito dove creare una propria vetrina o portfolio.
I disturbatori
I disturbatori non portano niente alla comunità se non, appunto, disturbo: creano un clima di disagio e possono spingere altri membri a fuggire. Ho visto tante community finire perché i disturbatori hanno portato i membri sull’orlo dell’esaurimento! E’ sempre un fatto molto triste, perché spesso la soluzione risiede nella via più semplice: escludere i disturbatori dalla community, senza paura di sentirsi dei dittatori.
Cambiano i valori
Quando una community si riunisce intorno a dei valori e principi che ne guidano le azioni collettive, il rischio è che, al cambiare di questi valori, la comunità si dissolva. Accade spesso per i brand che iniziano con alti ideali e poi col tempo questi non vengono rafforzati o, peggio, smentiti dalle decisioni aziendali. La coerenza in questo caso è importante, a qualsiasi livello. Anche se sei un piccolo brand, che sta giusto iniziando a costruire una community intorno al proprio nome e ai propri valori, fai attenzione che ogni tua azione sia coerente con quello che predichi (es. brand che promulga valori ambientali, non può avere un packaging composto da materiali non riciclabili o mostrare acquisti di prodotti dannosi per l’ambiente). Alla community, di solito, non sfugge niente!
Chi gestisce non ha più tempo
Nel caso delle community non legate a brand o personaggi, il rischio primario è che a un certo punto, chi gestisce la community in maniera volontaria, non abbia più tempo a disposizione da dedicarle. A questo punto o c’è un cambio di gestione, o semplicemente la community muore: purtroppo è raro che le community si autogestiscano, ci vuole sempre qualcuno che indichi la direzione e faccia un seppure minimo sforzo organizzativo, oltre che far rispettare le regole.
La community ideale (secondo me)
Esiste una comunità perfetta? Ovviamente no, però si può sognare. Ho fatto parte di tante comunità, nel tempo, da ognuna ho imparato qualcosa, di alcune ancora conservo amicizie, di tutte ho buoni ricordi. Di seguito faccio una mia personale wishlist delle caratteristiche della comunità ideale:
Gli scopi e valori
Esempio: lo scopo della community è imparare a gestire bene il proprio negozio e il modo in cui ci si arriva è grazie alla collaborazione tra colleghi, la condivisione di conoscenze e l’aiuto reciproco in caso di bisogno.
La grandezza
Le comunità piccole funzionano meglio, sono più gestibili, riescono a raggiungere i propri obiettivi.
Le regole
Esempio: sono in un gruppo in cui si discute di filosofia; le regole sono poche ma chiare, rispetto, niente sessismo, niente razzismo, no ad apologia di fascismo. Quando qualcuno contravviene alle regole viene eliminato dal gruppo e ciò permette ai partecipanti di proseguire a discutere tranquillamente di filosofia, invece di stare a litigare.
Ovviamente ci vuole qualcuno che moderi la community, perché purtroppo oramai l’auto-moderazione è un’utopia.
I vantaggi
Esempio: fare parte della comunità degli artigiani comporta l’avere una responsabilità verso gli altri artigiani. Questa responsabilità si esprime, per esempio, su come faccio il mio lavoro, su come tratto i clienti e su come faccio i prezzi. Se lavoro male, tratto male i clienti e i prezzi sono fatti a cavolo, non solo sarò penalizzato come artigiano (perderò clienti e guadagni) ma vado a scalfire l’immagine di tutti gli artigiani, perché chi compra da me e avrà un’esperienza negativa magari non si fiderà più a comprare anche da altri artigiani, e il mio prezzo basso darà un messaggio distorto sul lavoro che ci vuole per creare un pezzo artigianale (costa poco = vale poco). Al contrario, se lavoro bene, tratto bene i miei clienti e i miei prezzi sono adeguati a permettermi di guadagnare, chi compra da me avrà un’immagine positiva degli artigiani in generale, i miei concorrenti non dovranno abbassare troppo i prezzi per farmi concorrenza e tutti guadagneremo di più. Le mie azioni in quanto artigiano portano un vantaggio personale e anche un vantaggio alla comunità.
I personalismi portano al deterioramento della comunità, perché si finirà inevitabilmente a scontrarsi l’un l’altro per far prevaricare il proprio interesse su quello altrui, mentre bisogna lavorare insieme per il bene di tutti.
Come scegliere la community
Di sicuro ti posso dire di evitare come la peste le community dove non ci sono regole e quelle dove ci si prende a male parole. Ce ne sono anche nel mondo dei creativi e dell’artigianato e io ti dico: evitale. Di solito sono gestite e frequentate da persone frustrate e lamentone, che si sfogano sugli altri, in un circolo vizioso che crea altri frustrati e lamentoni.
Voglio dirlo chiaramente: lo scopo di una community non può essere né il dileggio né il lamento né il bullismo!
La sfida
Per gli artigiani, il mio invito è a creare reti piccole sul territorio, per darsi sostegno reciproco e riuscire, insieme, a fare cose che da soli sarebbe più costoso o impossibile da fare, che sia l’acquisto di servizi o organizzare la formazione.
Io sto cercando di lavorare in questa direzione, in Calabria, come ti ho raccontato recentemente, e anche in Umbria, dove vivo e dove inizia ad esserci una folta schiera di piccoli brand artigianali. Il primo passo lo faremo il prossimo dicembre, alle Officine Fratti a Perugia, dove l’associazione Make organizza Made in Umbria, un’esposizione di artigiani umbri e dove abbiamo deciso di fare la prima riunione degli artigiani umbri.