I benefici di far parte di una rete o community

Oramai l’ho scritto e detto tantissime volte, ma mi ripeterò per l’ennesima volta: frequentare la community di artigiani è stato un evento che mi ha cambiato la vita. Da quando sono una nerdina DOC ho frequentato tante community online, ma quella degli artigiani, italiani e internazionali, è stata quella che in cui mi sono sentita davvero a casa.
Costituita da persone tanto diverse per provenienza, formazione, dati anagrafici, è la community che più mi ha insegnato il senso della parola generosità e di cui, a distanza di quasi 10 anni, non mi sono mai stancata, a differenza delle altre.
Certo, le cose sono cambiate, dagli inizi…
Nel 2010 entravo nella community su Etsy e, dopo circa un anno, iniziavo a gestirla. Eravamo pochi, immersi in una cultura anglofona e con una scarsità di informazioni che ci spingeva all’esperimento, al confronto e alla condivisione dei risultati. Si stava sui forum, i social erano agli albori, ci si vedeva dal vivo per i primi eventi organizzati dai e per i crafter.
E poi cosa è successo?

La comunità dei crafter è aumentata a dismisura, si è frazionata sui social, in gruppi e pagine, spesso intorno agli influencer. E’ forse venuta meno la voglia di cercare da sé le informazioni, perché nel frattempo sono diventate sovrabbondanti; è forse venuto meno lo stimolo a collaborare verso obiettivi comuni, ognuno preso dal proprio desiderio di riuscire.

Cosa vuol dire fare parte di una community

Essere in un gruppo Facebook, così come ritrovarsi al bar ogni sabato mattina, non vuol dire necessariamente essere parte di una community. Una comunità è fatta di persone che possono parlare del più e del meno o anche spettegolare e sparlarsi alle spalle ma che, nel momento del bisogno, si aiutano a vicenda o si uniscono per raggiungere uno scopo comune. In questo senso, una comunità è tale se è partecipata, se i suoi membri sono attivi, altrimenti si tratta di una trasmissione a direzione unica, c’è qualcuno che dice cose e altri che assorbono più o meno passivamente.
Il fatto è che il concetto di “attività”, al tempo dei social, ha subito uno spostamento verso azioni dall’effetto spesso insignificante o nullo. Mettere un like o un commento ci fanno sentire “attivi” (abbiamo fatto qualcosa) ma quali sono gli effetti pratici di queste azioni? Sono davvero azioni, se non producono effetti che non siano numeretti su uno schermo?
Infine, si può avere una community senza una “piattaforma” o, se vuoi, un luogo d’incontro? Il bar è una piattaforma, così come il gruppo Facebook: sono spazi dove le persone possono incontrarsi e interagire. I luoghi di incontro, oggi, sono tanti e frazionati: ognuno di noi fa parte di numerosi gruppi Facebook, frequenta innumerevoli pagine e profili social, senza contare i luoghi reali (la piazza del paese, l’oratorio, il bar, il club del libro, le serate di knitting…). E’ normale fare parte di tante comunità, ognuno di noi, crescendo, ha imparato a gestirle, solo che coi social sono diventate davvero tante. Se ti chiedessi, riguardo alla tua attività creativa, a quale community ti senti appartenere, cosa risponderesti? E perché ti senti parte di questa community? Cosa ha fatto per te e cosa hai fatto tu per la community?
Creare un senso di appartenenza e unione è un altro requisito delle community che funzionano: questo senso di appartenenza genera unione tra i membri del gruppo e li spinge a collaborare in armonia. (Qui potrei aprire una parentesi su come, a volte, questo senso di appartenenza viene sollecitato da chi gestisce le comunità, utilizzando dei “nemici esterni”, ma non ho le competenze per sproloquiare sulla teoria dell’identità sociale e di ingroup e outgroup. E sì, capita anche alle comunità di creativi, l’ho visto accadere: il “nemico” può essere un’altra comunità di creativi o una piattaforma, di fatto il senso di appartenenza riceve un boost perché si fa leva sul ‘noi’ contro ‘loro’. Ti suona familiare? Eccerto, lo vediamo accadere anche in politica, da sempre.)
Grazie al senso di appartenenza, community molto piccole possono riuscire a fare grandi cose: pensate al Cristianesimo, partito da quattro gatti e arrivato a vette di diffusione e potere inimagginabili!

Io penso alle cose fatte con l’Etsy Italia team, come ti raccontavo nell’articolo sul viaggio in Calabria.

Le difficoltà delle community

Gestire e far prosperare una community non è facile. Si tratta pur sempre di tante presone, ognuna con le proprie idee e obiettivi, ognuna con la sua sensibilità e il suo modo di fare le cose. Se è utile stabilire subito che chi decide fa e che i “io farei così” valgono solo se poi si trasformano in fatti, ci sono altri ostacoli più o meno difficili da superare:

Arrivano in massa nuovi partecipanti

Di solito i problemi iniziano quando la community si allarga. Da un gruppo compatto di persone, si passa a un gruppo più esteso. Le persone approdano alla community per i più svariati motivi e portano un terremoto: non è facile integrare i nuovi attivati, trasmettere loro i comportamenti, i valori, i principi. Questa fase è sempre delicata, perché può portare a due possibili fallimenti: uno, è che i nuovi non riescono a integrarsi, rimangono ai margini e si sentono, solo perché nuovi, bistrattati dai vecchi, che continuano a fare gruppo compatto tra loro.
Il secondo si presenta se i nuovi prendono il sopravvento coi propri modi di fare e valori, così che i vecchi fuggono, spaventati. Una cosa così accadde con Deviantart: a un certo punto divenne super famosa e ci fu un ingresso massiccio giovanissimi, che invasero il portale (e social ante litteram) con arte che non era proprio arte (fan art disegnata da bambini e ragazzini, ehm) che, insieme allo sparire delle interazioni che erano la base fondante della comunità (si stava su Deviantart per il confronto: si criticava e si ricevevano critiche, si cresceva insieme) portò tanti della “vecchia guardia” ad abbandonare il sito. Deviantart esiste ancora ma, più che una community, è un sito dove creare una propria vetrina o portfolio.

I disturbatori

E’ pressoché inevitabile, in ogni comunità, che ci siano persone che facciano i bastian contrari, che provino a infrangere le regole per vedere sin dove si possono spingere. In tanti hanno questa ferma convinzione che una comunità sia una democrazia, senza forse sapere bene cosa voglia dire questa parola, interpretandola nel senso: tutti possono dire tutto, se me lo impedisci è censura. In realtà, qualsiasi comunità, ha delle regole che aiutano il vivere civile e, se non si rispettano, si pagano le conseguenze, come per esempio l’espulsione.
I disturbatori non portano niente alla comunità se non, appunto, disturbo: creano un clima di disagio e possono spingere altri membri a fuggire. Ho visto tante community finire perché i disturbatori hanno portato i membri sull’orlo dell’esaurimento! E’ sempre un fatto molto triste, perché spesso la soluzione risiede nella via più semplice: escludere i disturbatori dalla community, senza paura di sentirsi dei dittatori.

Cambiano i valori

Quando una community si riunisce intorno a dei valori e principi che ne guidano le azioni collettive, il rischio è che, al cambiare di questi valori, la comunità si dissolva. Accade spesso per i brand che iniziano con alti ideali e poi col tempo questi non vengono rafforzati o, peggio, smentiti dalle decisioni aziendali. La coerenza in questo caso è importante, a qualsiasi livello. Anche se sei un piccolo brand, che sta giusto iniziando a costruire una community intorno al proprio nome e ai propri valori, fai attenzione che ogni tua azione sia coerente con quello che predichi (es. brand che promulga valori ambientali, non può avere un packaging composto da materiali non riciclabili o mostrare acquisti di prodotti dannosi per l’ambiente). Alla community, di solito, non sfugge niente!

Chi gestisce non ha più tempo

Nel caso delle community non legate a brand o personaggi, il rischio primario è che a un certo punto, chi gestisce la community in maniera volontaria, non abbia più tempo a disposizione da dedicarle. A questo punto o c’è un cambio di gestione, o semplicemente la community muore: purtroppo è raro che le community si autogestiscano, ci vuole sempre qualcuno che indichi la direzione e faccia un seppure minimo sforzo organizzativo, oltre che far rispettare le regole.

La community ideale (secondo me)

Esiste una comunità perfetta? Ovviamente no, però si può sognare. Ho fatto parte di tante comunità, nel tempo, da ognuna ho imparato qualcosa, di alcune ancora conservo amicizie, di tutte ho buoni ricordi. Di seguito faccio una mia personale wishlist delle caratteristiche della comunità ideale:

Gli scopi e valori

Secondo me ci devono essere degli scopi condivisi che vadano oltre il piano materiale, perché quello concerne spesso gli aspetti più superficiali dell’esistenza. Questo perché, se gli scopi sono solo materiali, al raggiungimento di questi le persone non avranno più motivo di far parte della community. Il bisogno di appartenenza e condivisione va nutrito continuamente. Avere dei valori comuni aiuta lo stare insieme e questi valori, secondo me, devono spingere le persone a cercare di diventare migliore e stare meglio insieme, e non viceversa.
A mio avviso, senza collaborazione, condivisione e aiuto reciproco, non ha senso parlare di comunità e queste tre cose possono essere il motore per raggiungere gli scopi.
Esempio: lo scopo della community è imparare a gestire bene il proprio negozio e il modo in cui ci si arriva è grazie alla collaborazione tra colleghi, la condivisione di conoscenze e l’aiuto reciproco in caso di bisogno.

La grandezza

Nelle community c’è un punto di rottura, quando sono troppo grandi smettono di avere senso, per due motivi: 1) a partecipare attivamente sarà sempre una percentuale molto piccola del totale 2) secondo il numero di Dunban, è difficile intrattenere rapporti con più di 150 persone.

Le comunità piccole funzionano meglio, sono più gestibili, riescono a raggiungere i propri obiettivi.

Le regole

Le regole devono essere chiare, altrimenti ognuno fa quello che vuole, con gli effetti che ho descritto prima. Inoltre le regole vanno fatte rispettare, per lo stesso motivo.
Esempio: sono in un gruppo in cui si discute di filosofia; le regole sono poche ma chiare, rispetto, niente sessismo, niente razzismo, no ad apologia di fascismo. Quando qualcuno contravviene alle regole viene eliminato dal gruppo e ciò permette ai partecipanti di proseguire a discutere tranquillamente di filosofia, invece di stare a litigare.
Ovviamente ci vuole qualcuno che moderi la community, perché purtroppo oramai l’auto-moderazione è un’utopia.

I vantaggi

Il vantaggio del singolo corrisponde al vantaggio della community nel suo complesso. Questo spesso è difficile da capire ma funziona davvero così, anche a livello macroscopico.
Esempio: fare parte della comunità degli artigiani comporta l’avere una responsabilità verso gli altri artigiani. Questa responsabilità si esprime, per esempio, su come faccio il mio lavoro, su come tratto i clienti e su come faccio i prezzi. Se lavoro male, tratto male i clienti e i prezzi sono fatti a cavolo, non solo sarò penalizzato come artigiano (perderò clienti e guadagni) ma vado a scalfire l’immagine di tutti gli artigiani, perché chi compra da me e avrà un’esperienza negativa magari non si fiderà più a comprare anche da altri artigiani, e il mio prezzo basso darà un messaggio distorto sul lavoro che ci vuole per creare un pezzo artigianale (costa poco = vale poco). Al contrario, se lavoro bene, tratto bene i miei clienti  e i miei prezzi sono adeguati a permettermi di guadagnare, chi compra da me avrà un’immagine positiva degli artigiani in generale, i miei concorrenti non dovranno abbassare troppo i prezzi per farmi concorrenza e tutti guadagneremo di più. Le mie azioni in quanto artigiano portano un vantaggio personale e anche un vantaggio alla comunità.

I personalismi portano al deterioramento della comunità, perché si finirà inevitabilmente a scontrarsi l’un l’altro per far prevaricare il proprio interesse su quello altrui, mentre bisogna lavorare insieme per il bene di tutti.

Come scegliere la community

E qui veniamo al sodo: come si fa a trovare la propria community, quella che diventa casa? Te lo devo dire, è pure questione di fortuna. E di sperimentare: io ne ho provate tante prima di trovare quella del mio cuor!
Di sicuro ti posso dire di evitare come la peste le community dove non ci sono regole e quelle dove ci si prende a male parole. Ce ne sono anche nel mondo dei creativi e dell’artigianato e io ti dico: evitale. Di solito sono gestite e frequentate da persone frustrate e lamentone, che si sfogano sugli altri, in un circolo vizioso che crea altri frustrati e lamentoni.
Voglio dirlo chiaramente: lo scopo di una community non può essere né il dileggio né il lamento né il bullismo!
E se non trovi la community che fa per te? Creala! Sì, è fatica, ma ne vale la pena.

La sfida

La sfida, secondo me, è quella di trovare modi di stare insieme, anche tra persone molto diverse, per sentirsi meno soli e superare il clima divisivo, stile tutti contro tutti, che si respira da tempo in Italia, dentro e fuori i social.
Non importa se si crea un gruppo per giocare a D&D o per andare a fare birdwatching, l’importante è non sentirsi isolati con le proprie peculiarità, interessi, passioni.

Per gli artigiani, il mio invito è a creare reti piccole sul territorio, per darsi sostegno reciproco e riuscire, insieme, a fare cose che da soli sarebbe più costoso o impossibile da fare, che sia l’acquisto di servizi o organizzare la formazione.

Io sto cercando di lavorare in questa direzione, in Calabria, come ti ho raccontato recentemente, e anche in Umbria, dove vivo e dove inizia ad esserci una folta schiera di piccoli brand artigianali. Il primo passo lo faremo il prossimo dicembre, alle Officine Fratti a Perugia, dove l’associazione Make organizza Made in Umbria, un’esposizione di artigiani umbri e dove abbiamo deciso di fare la prima riunione degli artigiani umbri.

Da qualche parte bisogna partire, no?